21 aprile 2022
Feel The Race: Touching Roubaix
Immagini di Federico Damiani
La Parigi Roubaix è un abbraccio un po’ troppo stretto di una persona cara.
Lo aspetti per una stagione - chi non vorrebbe correre una Roubaix? - ma appena comincia hai già voglia che ti lasci andare e che finisca il più presto possibile.
La Roubaix sono le mani sul manubrio che prendono colpi e schiaffi pietra dopo pietra. E più la presa è stretta più i colpi sono letali. Per vincere una Roubaix, insegna chi l’ha fatto, bisogna essere gentili e assecondare la bici senza stringerla troppo. Bisogna lasciarla andare, bisogna avere tatto.
La Roubaix sono le mani che picchiano sulle transenne e sui cartelloni per incitare i ciclisti fino a farsi male.

Per qualcuno la Roubaix sono le pietre che ti picchiano sul corpo dopo una caduta in uno dei settori. O forse peggio il groviglio di biciclette, ruote e componenti che ti finiscono addosso se la caduta avviene in gruppo.
É la striscia di terra liscia che ti da un po’ di sollievo dai colpi delle pietre. Una zona di salvezza che si cerca anche a costo di fare un esercizio di equilibrismo.
Quando ci fai l’abitudine, la Roubaix la corri senza guanti come Tom Boonen per sentire tutto quello che il pavé ha da buttarti addosso. Perché a un certo punto le pietre sono un vecchio amico che vedi solo una volta all’anno. Certo, un amico un po’ violento e scorbutico, ma comunque un grande amico.

La Roubaix di quest’anno è un pugno in faccia a freddo. Così asciutta e così veloce da accorgersi cosa è stato solo dopo la linea d’arrivo.
La Roubaix è la terra dei campi. Può essere fango denso o polvere che si attacca addosso. É finire con la faccia piena di terra bagnata, con il fango che si asciuga e inizia a tirare la pelle. Oppure è la polvere che si attacca ovunque e ti impasta la bocca: bere dalla borraccia, alla Roubaix, ha poco a che fare con il gusto.
La Roubaix di quest’anno è molto più che polvere che si attacca ovunque. É sabbia e terra finissima che ricopre i corridori e guai a finire staccati in mezzo alle ammiraglie. Ma ricopre anche il pubblico a petto nudo o vestito con una bandiera, a cui non importa di tornare a casa impolverato: basta aver visto uno spettacolo come quello di oggi.

La Roubaix sono gli abbracci stretti dei tifosi. Può essere il sole caldo di primavera o la pioggia incessante ma di cui a nessuno, in fondo, interessa qualcosa. Può essere il caldo di un fuoco improvvisato e il freddo gelido del vento sulla faccia, tanto del pubblico quanto dei corridori.
É la sensazione del cemento liscio del Velodromo sotto le ruote, dopo una giornata a prendere colpi e buche. É l’acqua delle docce più famose del ciclismo sul viso. Per pochi, i più forti e fortunati della giornata, è il caldo delle fiamme del podio. Per uno solo, il più forte e fortunato, è la sensazione di una pietra pesante tra le mani da alzare al cielo per consacrare la giornata perfetta.
La Roubaix sono le mani sul viso di Dylan Van Baarle ed è un abbraccio caldissimo pochi metri dopo la linea d’arrivo. Un abbraccio che scioglie la tensione e scioglie l’attesa di una squadra che ha vinto tutto ma aspettava da sempre di mettere le mani e toccare la pietra pià importante del ciclismo.
